“La nostra arte è fisicità, è recupero di sensazioni oggi oscurate dal mondo virtuale. Avete notato che i bambini giocano all’aperto sempre più raramente? Noi riesumiamo il sentore di bagnato, la vertigine che prende camminando sull’acqua, l’eco di una vallata. […] non cercate significati simbolici, tipo la qualità effimera della vita, pensando al fatto che sono opere temporanee. No, quello che ci interessa sono le cose reali, l’acqua che si sentirà sotto ai piedi sul lago d’Iseo, il rumore del vento che tormentava i chilometri di tessuto con i quali abbiamo rivestito Central Park nel 2003”.
Queste sono le parole che Christo ha rilasciato durante un’intervista nel 2016, poco prima dell’inaugurazione del The Floating Piers, la passerella che ha unito Sulzano, Monte Isola e l’isola di San Paolo e ha permesso a un milione e mezzo di persone di camminare sulle acque del lago d’Iseo.
La Land Art: l’eterno mutevole rapporto tra uomo e natura
L’installazione del ponte galleggiante, ricoperto di tessuto colorato steso in modo da riprodurre l’ondeggiare dell’acqua fa parte delle opere appartenenti a una corrente artistica definita Land Art. Alla fine degli anni ‘60 negli Stati Uniti un gruppo di artisti “fanatici“ della natura e curiosi di portare l’arte al di fuori degli spazi istituzionali, come le gallerie, e lontano dalle metropoli fredde, caotiche e artificiali iniziano a utilizzare gli spazi aperti e la natura incontaminata come materiale e oggetto delle proprie opere. L’idea è di rendere monumentali dei territori naturali e farne fare esperienza diretta alle persone, in modo da stimolarle ad avere attenzione e cura nei confronti della natura e del paesaggio.
In netto contrasto con l’importanza data dalla Pop Art agli idoli contemporanei e agli oggetti e in opposizione alla monumentalità geometrica e distaccata della Minimal Art, Michael Heizer, Robert Smithson, Walter De Maria, Richard Long, Dennis Oppenheim, Beverly Pepper e James Turrell, gli artisti più importanti del movimento, iniziano a realizzare giganteschi disegni nel deserto; un enorme molo a forma di spirale, composto da detriti e cristalli di sale, nelle acque di un lago; a installare lastre di specchi nei boschi per far riflettere la luce e il cielo; fino a costruire il calco dei vicoli e delle vie di una città crollata a causa di un terremoto, come nel caso del Cretto di Burri a Gibellina vecchia, in provincia di Trapani.
“Ciò di cui si occupa l’arte – afferma uno degli esponenti della Land Art – è qualcosa di mutevole, che non ha bisogno di arrivare in un punto che sia definitivo rispetto al tempo e allo spazio. L’idea che il lavoro sia un processo irreversibile che si conclude con uno statico oggetto-icona, ormai è superata”. Le opere prodotte da tali artisti sono quindi il frutto e al tempo stesso la testimonianza di un percorso di conoscenza della natura e sono per la maggior parte di carattere effimero, cioè sono soggette per volontà dello stesso autore al deterioramento o alla distruzione. Proprio come è accaduto per The Floating Piers, la cui pedana galleggiante di 3 km è stata smontata dopo 3 settimane di apertura. Come racconta lo stesso Christo, l’opera è stata firmata dal duo artistico Christo e Jeanne Claude, nonostante la sua compagna fosse morta nel 2009, perché la visione di ricoprire un corso d’acqua con del tessuto era nata in una sera del 1992 mentre Christo e Jeanne Claude si trovavano sul fiume Arkansas.
Christo: “a me interessa la vita”
Il 31 maggio 2020 è scomparso anche Christo. Ma la sua opera finale andrà oltre la sua vita e si inaugurerà, per sua espressa volontà, nell’autunno del 2021: per 16 giorni, dal 18 settembre al 3 ottobre, a Parigi l’Arco di Trionfo verrà avvolto in un tessuto, portando a realizzazione l’ennesimo sogno che sembrava impossibile e il cui progetto è iniziato nel 1961 quando la coppia viveva in un piccolo appartamento che affacciava sul monumento.
Christo, figlio di un piccolo imprenditore tessile e di una segretaria dell’Accademia di Belle Arti di Sofia, nasce nel 1935 a Gabrovo, una piccola cittadina ai piedi dei Balcani. Dopo aver frequentato l’Accademia di Sofia, Christo Javašev lascia la Bulgaria per sfuggire al regime comunista. Nel 1958 arriva a Parigi, dopo essersi rifugiato a Praga, poi a Vienna e infine a Ginevra. I primi anni francesi sono molto duri, perché Christo è considerato un apolide e a causa del suo stato di soggetto privo di cittadinanza è costretto a vivere ai margini della società. Per sopravvivere Christo si dedica ai ritratti, che portano la firma “Javacheff”, il cognome originale della sua famiglia.
Le prime opere che portano la firma di Christo sono delle tele astratte e delle opere composte da oggetti impacchettati, che attirano immediatamente l’attenzione di alcuni artisti del movimento parigino noto come Nouveau Realism, tra i quali ci sono anche Yves Klein e Arman. Solo nel 1961, in occasione della sua mostra personale alla Galleria Haro Lauhus di Colonia, Christo e Jeanne Claude firmano il loro primo lavoro insieme, avvolgendo dei barili di petrolio nel porto di Colonia con dei teli di plastica, su suggerimento della stessa Jeanne Claude, che desiderava vedere l’effetto di oggetti di grandi dimensioni impacchettati.
Nascono così i progetti su larga scala, che porteranno Christo e Jeanne Claude a costruire prima un muro di barili in rue Visconti, vicino alla Senna, per protestare contro il muro di Berlino nel 1962; e poi, dopo il trasferimento negli Stati Uniti nel 1964, a imballare e impacchettare la costa di Sidney, un monumento a Milano, una valle delle Montagne Rocciose, delle isole della baia di Miami, il Pont Neuf di Parigi e il Reichstag di Berlino. Opere da vivere con tutto il corpo per amplificare la percezione della vita, come affermava Christo, e superare i limiti dello stupore.
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